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Intervento anti-ipertensivo: può ridurre il rischio di sviluppo della demenza?

A luglio del 2020, la rivista scientifica The Lancet, ha pubblicato un documento che individua 12 possibili fattori di rischio per lo sviluppo di demenza, tra cui l’ipertensione arteriosa. Per fattore di rischio si intende una condizione e/o caratteristica la cui presenza rende più probabile, sebbene non certo, lo sviluppo di una determinata patologia. Per una condizione di cui non si conosce la causa, l’intervento sui fattori di rischio può rappresentare un’ottima strategia preventiva. 

Questo diventa ancora più vero quando si parla di demenza, per la quale si prevede un aumento del numero dei casi nei prossimi decenni.

L’ipertensione arteriosa, un possibile bersaglio terapeutico

Nell’elenco proposto dal documento rientra una condizione molto comune nella popolazione generale: l’ipertensione arteriosa. L’ipertensione (definita come livelli di pressione superiori a 140/90 mmHg) colpisce circa il 30% della popolazione italiana. Viene spesso definita il “killer silenzioso”, dal momento che provoca danni all’organismo; soprattutto a cuore, reni, cervello, rimanendo a lungo asintomatica. Il rischio che comporta l’azione dell’ipertensione sullo sviluppo della demenza sarebbe da attribuire a:

  • danni ai piccoli vasi sanguigni; 
  • danni alla barriera emato-encefalica.
Lo studio SPRINT-MIND

Tra i vari studi clinici condotti per valutare l’efficacia preventiva nei confronti della demenza del trattamento dell’ipertensione, vi è lo studio SPRINT-MIND.

Lo studio ha confrontato l’efficacia del trattamento anti-ipertensivo intensivo (il cui obiettivo è quello di mantenere la pressione sistolica o “massima” al di sotto di 120 mmHg) con quello standard. In quest’ultimo caso l’obiettivo è una pressione sistolica inferiore a 140 mmHg. I benefici globali del trattamento intensivo, riguardanti la prevenzione della demenza ma anche patologie cardiovascolari, sono stati tali da portare all’interruzione anticipata dello studio. Ciò è avvenuto per offrire a tutti il miglior trattamento possibile.

Per quanto riguarda gli effetti specifici sul decadimento cognitivo, nel gruppo di pazienti sottoposti al trattamento intensivo si è osservata una riduzione nel successivo sviluppo di demenza. Tuttavia ne è emerso anche una riduzione di MCI o di qualsiasi deficit cognitivo. Va comunque sottolineata la necessità di una particolare attenzione nel trattare persone anziane (oltre gli 80-85 anni) nelle quali un trattamento troppo aggressivo potrebbe aumentare i rischi piuttosto che i benefici.

Benefici per cuore e cervello

Queste osservazioni confermano che “ciò che fa bene al cuore, fa bene anche al cervello”, infatti:

  • incentivano l’attenzione al controllo dei molteplici fattori di rischio cardiovascolari già nelle età medie (intorno ai 50 anni).
  • gettano le basi per indagare ulteriormente sull’efficacia preventiva di questo trattamento farmacologico, anche nei confronti della demenza. 

Dott.ssa Giulia D’Alvano (Dottoressa in Medicina e Chirurgia)


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